La Cassazione sulla irretroattività delle decadenze e delle tutele del Jobs act e sull'applicazione (indiretta) della sentenza Carratù della Corte Ue

di

Sergio Galleano e Vincenzo De Michele

(*)[1]

 

SOMMARIO: a) Il processo del lavoro senza l’intervento legislativo retroattivo. - b) Il 1° intervento legislativo: art.4 bis d.lgs. n.368/2001. - c) Il 2° intervento legislativo: art.32, cc.3, lett.a) e d), 4, lett.a) e b), 5, 6 e 7 l.n.183/2010. - c1) La sentenza n.303/2011 della Corte costituzionale. d) Il 3° intervento normativo: l’art.1, c.13, l. n.92/2012 e il nuovo art.32, c.3, lett.a), l. n.183/2010. e) Il 4° intervento normativo-giurisprudenziale: la sentenza Carratù della Corte di giustizia. - f) Il 5° intervento normativo: il Jobs act e l’abrogazione dell’art.32, cc.3, let.a), 5 e 6, l. n.183/2010 e del d.lgs. n.368/2001. - g) La sentenza n.21266/2015 della Cassazione sulla irretroattività del Jobs act.

 

a) Il processo del lavoro senza l’intervento legislativo retroattivo

Con la sentenza n.21266/2015[2] la Cassazione si  pronuncia per la prima volta su una fattispecie processuale di successione di leggi che definiscono le conseguenze sanzionatorie in caso di abuso del contratto di lavoro a tempo determinato.

È decisivo, per comprendere la particolarità e la rilevanza della questione interpretativa risolta dalla Corte di legittimità, partire dal diverso regime sanzionatorio applicato dai giudici di merito nei precedenti gradi di giudizio.

Il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda di riqualificazione del primo dei due contratti a termine di durata media trimestrale, stipulati da Poste italiane nel 1998-1999 nel regime della l. n.230/1962 e/o dell'art. 23, c.1, della l.n.56/1987, per esigenze di sostituzione di personale in ferie (il primo) e per esigenze eccezionali ai sensi dell'art. 8 Ccnl del 1994 (il secondo), dichiarando la nullità del termine, la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato sin dall'inizio della prestazione e il risarcimento dei danni nella misura delle retribuzioni globali di fatto non percepite dal momento della messa in mora (avvenuta nel 2003 con il deposito del ricorso giudiziale) e fino al ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente interrotto.

La Corte di appello di Roma, invece, aveva accolto parzialmente l'appello di Poste riformando la sentenza di 1° grado, riqualificando il secondo contratto a termine per nullità del termine e negando il diritto al risarcimento del danno, per avere il lavoratore offerto la prestazione dopo il decorso del termine di tre anni dal momento della cessazione del rapporto di lavoro dichiarato invalido nell'apposizione del termine, lasso temporale ritenuto dal giudice di appello come ragionevole per trovare nuova occupazione stabile.

 

b) Il 1° intervento legislativo: art.4 bis d.lgs. n.368/2001

Già nelle more del giudizio di appello era intervenuta la norma salva-Poste dell’art.4 bis d.lgs. n.368/2001, introdotta dall’art.21, comma 1  bis ,del d.l. n.112/2008, che prevedeva una nuova sanzione in caso di nullità del termine contrattuale limitata al risarcimento dei danni da 2,5 a 6 mensilità di retribuzione, con esclusione della «conversione», e applicabile soltanto ai processi in corso alla data di conversione del decreto legge (l. n.133/2008).

L’art.4 bis d.lgs. n.368/2001 è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n.214/2009 e, quindi, non è stato più applicato alla fattispecie di causa.

Sia il lavoratore che Poste italiane hanno impugnato con ricorso principale la sentenza di appello.

 

c) Il 2° intervento legislativo: art.32, cc.3, lett.a) e d), 4, lett.a) e b), 5, 6 e 7 l.n.183/2010

Dopo il deposito dei due ricorsi per cassazione é entrato in vigore il Collegato lavoro 2010, che all'art. 32, cc. 5, 6 e 7, l. n.183/2010 ha previsto, «in caso di conversione del contratto a tempo determinato», un'indennità forfetaria da un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione globale di fatto fino ad un tetto massimo di 12 mensilità (c.5), riducibile a 6 (c.6) nel caso in cui il datore di lavoro come Poste faccia ricorso a graduatorie per l'assunzione, applicabile anche ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della novella (c.7).

Inizialmente, si era prospettata anche la possibilità di applicare l’art.32, c.5, l. n.183/2010 come surrogato dell’art.4 bis d.lgs. n.368/2001, da estendere a tutte le ipotesi di nullità del termine contrattuale, senza “conversione” a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, ma l’opzione interpretativa, che era sicuramente nella “genetica” legislativa, era stata immediatamente scartata per la formulazione della nuova disposizione sanzionatoria, diversa da quella dichiarata illegittima dalla Consulta.

Contestualmente, l’art.32, c.3, lett.a) e d), l. n.183/2010 ha esteso anche ai contratti a tempo determinato la disciplina della doppia decadenza sostanziale e processuale introdotta dal 1° comma dello stesso articolo per i licenziamenti, nelle due distinte ipotesi dei «licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto» [let.a)] e della «azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo» [let.d)].

L’art. 32, c.4, lett. a) e b), l. n.183/2010 ha precisato che la disciplina sulla doppia decadenza si applica sia ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt.1, 2 e 4 d.lgs. n.368/2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della stessa novella [let.a)], sia a quelli già conclusi alla data del 24 novembre 2010, anche in applicazione delle disposizioni previgenti al d.lgs. n.368/2001 [let.b)]. Queste ultime disposizioni si coordinano perfettamente con l’applicazione della nuova sanzione dell’indennità forfetaria anche a tutti i giudizi in corso (art.32, c.7).

 

c1) La sentenza n.303/2011 della Corte costituzionale

L’indennità forfetaria è stata sottoposta a scrutinio di costituzionalità sia dal Tribunale di Trani che dalla Cassazione con l’ordinanza n.2112 del 28 gennaio 2011[3], in quest’ultimo caso evidenziando la Suprema Corte l’applicabilità anche ai giudizi pendenti davanti al giudice di legittimità, per violazione dell’art.6 Cedu e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come parametro interposto all’art.117, c. 1, Cost.

Prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, la Suprema Corte si era interrogata sull’ambito di applicazione della nuova disciplina sanzionatoria nel rapporto con il nuovo sistema delle fonti euro-unitario e il Centro studi del Massimario della Cassazione con la relazione n.2 del 12 gennaio 2011[4] aveva ricostruito sulla materia il complesso sistema regolativo delle fonti sovranazionali e nazionali, in gran parte di natura giurisprudenziale, e aveva sottolineato il contrasto dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della l. n. 183/2010 con la normativa Ue, Cedu e costituzionale, suggerendone la non applicazione o l’applicazione adeguatrice.

La Corte costituzionale con sentenza n.303/2011 ha dichiarato infondate le questioni costituzionali sull’art.32, cc. 5 e 7, l. n.183/2010, ritenendo sussistenti le ragioni imperiose di carattere generale che, in base alla giurisprudenza Cedu, legittimavano l’intervento retroattivo della norma in questione su tutti i processi pendenti.

Il giudice delle leggi ha citato non correttamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dimostrando di non aver mai instaurato un dialogo attivo con la Corte di Strasburgo e di non voler “applicare” l’art.117, c.1, Cost. e il diritto convenzionale, dopo le apparenti aperture delle sentenze gemelle nn.348 e 349 del 2007, in materia di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni o in materia previdenziale fino alle inaccettabili[5] sentenze nn.234/2007 e 311/2009 sul personale ata transitato dagli Enti locali allo Stato, n.303/2011 sull’art.32, commi 5, 6 e 7, della legge n.183/2010, n.257/2011 sulle pensioni agricole, nn.172/2008 e 264/2012 sulle pensioni svizzere, n.362/2008 sulla previdenza integrativa dei funzionari del Banco di Napoli.

Non va dimenticato, infatti, che la Corte europea dei diritti dell’uomo con le sentenze Agrati I[6] del 7 giugno 2011 e Agrati II dell’8 novembre 2012 sul personale ata (ribadite dalla sentenza Montalto del 14 gennaio 2014), con la sentenza Maggio del 31 maggio 2011 sulle pensioni svizzere (ribadita dalla sentenza Stefanetti del 15 aprile 2014 anche per violazione dell’art.1 del 1° Protocollo alla Cedu), con la sentenza Arras del 14 febbraio 2012 sulle pensioni integrative dei funzionari del Banco di Napoli, ha censurato specificamente quattro delle citate sentenze della Corte costituzionale nello spazio di meno di un anno, e la Consulta ha risposto con durezza o contestando la riconducibilità alla fattispecie di causa delle decisioni della Cedu (sentenze nn.257/2011 e 303/2011) o riducendo la portata alla soluzione del “singolo” caso concreto (sentenza n.264/2012), per renderla inidonea ad incidere su evanescenti diritti fondamentali dell’ordinamento interno.

Nell’affermare la legittimità di una norma sanzionatoria che interveniva sui processi in corso concernenti (imprescrittibili) azioni giudiziarie di accertamento della nullità del termine contrattuale e di riqualificazione a tempo indeterminato di rapporti di lavoro sorti originariamente a tempo determinato, con conseguente ricostruzione ab imis sin dall’inizio della prestazione lavorativa illegittimamente interrotta da un punto di vista contributivo ed assicurativo, la Consulta con la sentenza n.303/2011 sull’art.32, cc.5-7, l. n.183/2010 compie un’operazione di diritto creativo, costruendo una nuova tipologia di contratto di lavoro a tempo indeterminato, che sorge con efficacia costitutiva nel momento della sentenza giudiziale di declaratoria di invalidità del termine.

 

d) Il 3° intervento normativo: l’art.1, c.13, l. n.92/2012 e il nuovo art.32, c.3, lett.a), l. n.183/2010

La nuova fattispecie negoziale di sentenza di merito costitutiva di un contratto a tempo indeterminato, introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n.303/2011 che troverà la sua regolamentazione normativa nella nuova disciplina del c.d. contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui all’art.1, c.2, d.lgs. n.23/2015, viene inizialmente contestata giustamente da una parte della giurisprudenza di merito per il suo (inesistente) fondamento giuridico.

La Cassazione, invece, si è immediatamente adeguata al dictum della Corte costituzionale, applicando l’art.32, c.5, l. n.183/2010 anche ai giudizi pendenti in sede di legittimità, cassando con rinvio alle Corti di appello competenti per una nuova determinazione della misura del danno spettante al lavoratore, oltre alla conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine, con effetti costitutivi dalla sentenza di riqualificazione.

La legge Fornero con l’art.1, c.13, l. n.92/2012 ha introdotto una norma di interpretazione autentica dell’art.32, c.5, l. n.183/2010, identificando nella indennità forfettaria tutti i danni subiti dal lavoratore e così affermandone la onnicomprensività ed esaustività: «La disposizione di cui al comma 5 dell'articolo 32 della  legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il  pregiudizio  subito  dal  lavoratore, comprese  le  conseguenze  retributive  e  contributive  relative  al periodo compreso fra la scadenza  del  termine  e  la  pronuncia  del provvedimento  con  il   quale   il   giudice   abbia   ordinato   la ricostituzione del rapporto di lavoro».

Contestualmente, l’art.1, c.11, lett.a) e b), della l. n.92/2012 ha unificato nella nuova formulazione dell’art.32, c.3, let.a)[7], l. n.183/2010 le due ipotesi di invalidità del termine contrattuale in precedenza disciplinate dalle lettere a) e d) (quest’ultima abrogata) dello stesso articolo del Collegato lavoro 2010.

Coordinandosi con l’art.32, c.1-bis, d.lgs. n.183/2010[8] e con la nuova disciplina del rito Fornero di impugnativa dei licenziamenti individuali nell’ambito di applicazione dell’art.18 l. n.300/1970, l’art. 1, c.12, l. n.92/2012 ha previsto la decorrenza della nuova formulazione dell’art.32, c.3, let.a), del Collegato lavoro in relazione alle  cessazioni  di contratti a tempo determinato verificatesi a partire dal 1° gennaio 2013.

La disciplina transitoria dei termini decadenziali di cui all’art.1, c.12, l. n.92/2012 in materia di impugnativa del termine contrattuale era opportuna, perchè sembrava completare senza ulteriori traumi interpretativi il processo di sostanziale equiparazione – intrapreso dall’art.32 del Collegato lavoro - della disciplina delle tutele e delle decadenze tra licenziamenti illegittimi nell’ambito di  applicazione della tutela “reale” e assunzioni a tempo determinato irregolari o illecite di cui agli artt.1, 2 e 4 d.lgs. n.368/2001, con esclusione, dunque, delle violazioni della disciplina dei contratti successivi di cui all’art.5. cc.2, 3, 4 e 4-bis, d.lgs. n.368/2001.

Nella giurisprudenza di merito prevalente l’equiparazione della tutela “in uscita” tra licenziamenti individuali e contratti a tempo determinato non è stata accolta sul piano sistematico e il rifiuto di ricostruire un quadro normativo più razionale delle tutele e delle decadenze in materia ha portato ad aumentare il caos interpretativo, muovendosi lungo due direttrici convergenti verso la meta auspicata del deflazionamento del contenzioso postale sui ctd: da un lato suggerendo la non retroattività della disciplina del milleproroghe per l’impugnativa dei contratti a termine fino al 31 dicembre 2011, dall’altro escludendo l’applicazione del rito Fornero anche ai contratti a tempo determinato cessati con decorrenza dal 1° gennaio 2013.

 

e) Il 4° intervento normativo-giurisprudenziale: la sentenza Carratù della Corte di giustizia

Con la sentenza Carratù del 12 dicembre 2013[9]  la Corte di giustizia esprimeva, invece, un


giudizio di sostanziale incompatibilità dell’art.32, cc.5 e 7, l.n.183/2010 con le clausole 4, n.1 e 8, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.

In fattispecie di un unico contratto a termine per ragioni sostitutive ai sensi dell’art.1, c.1, d.lgs. n.368/2001, già trasformato a tempo indeterminato con sentenza parziale dal giudice del rinvio (Tribunale di Napoli[10]), la Corte europea qualifica Poste come organismo statale ed evidenzia, in conseguenza, l’applicazione diretta del principio di uguaglianza e non discriminazione enunciato nella direttiva 1999/70/Ce nei confronti dello Stato.

In conseguenza, secondo la Cgue l’applicazione diretta ad un organismo statale della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato impedisce la modifica della tutela già riconosciuta ai lavoratori in caso di assunzione a termine irregolare o illecita, che il legislatore del d.lgs. n.368/2001 – a maggior ragione con le discipline dell’art.32 l. n.183/2010 e dell’art.1, cc.11-13, l. n.92/2012 - aveva equiparato come condizione di maggior favore a quella dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, licenziati illegittimamente nell’ambito di applicazione dell’art.18 l. 300/1970 ante Fornero.

Sia la Cassazione (da ultimo, sent. n.21493/2015) che la Corte costituzionale (sent. n. 226/2014 e 155/2015[11]) hanno ignorato o depotenziato la sentenza Carratù della Corte di giustizia.

Per contro, la Cassazione con la sentenza n.2494/2015[12], con pregevole e autorevole argomentazione ha comunque sottolineato che l’unica interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.32, c.1-bis, d.lgs. n.183/2010 è quella della sua retroattività anche (e soprattutto) al regime delle decadenze introdotte per i contratti a tempo determinato.

La giurisprudenza di merito[13] si è prontamente adeguata a quest’ultimo orientamento nomofilattico della Suprema Corte, censurando l’incoerenza argomentativa della pronunzia n.155/2014 della Corte costituzionale sull’applicazione non retroattiva della norma introdotta dal milleproroghe.

 

f) Il 5° intervento normativo: il Jobs act e l’abrogazione dell’art.32, cc.3, let.a), 5 e 6, l. n.183/2010 e del d.lgs. n.368/2001

Dopo la sentenza Carratù della Corte di giustizia (e, aggiungiamo, in conseguenza della decisione della Corte europea[14] già con il d.l. n.34/2014), il legislatore del Jobs act (d.lgs. n.81/2015) da un lato ha abrogato l’art.32, cc.3, let.a), 5 e 6, l. n.183/2010 [art.55, c.1, lett.f)], dall’altro ha previsto un nuovo regime di decadenza (art.28, c.1[15]) e di tutele (art.28, cc.2-3[16]) legato all’unica misura di abuso in caso di successione di contratti a termine acausali, cioè la trasformazione a tempo indeterminato nelle diverse previsioni degli artt.19, c.3, 20, c.2, 21, cc.1 e 2, 22, c.2, d.lgs. n.81/2015 (già previste, con formulazioni in parte diverse dalla normativa vigente, dall’art.5, cc.2, 3, 4 e 4 bis, d.lgs. n.368/2001), sostituendosi alla «conversione» a tempo indeterminato prevista per il caso di nullità del termine.

Il d.lgs. n.81/2015 non prevede, altresì, nessuna disciplina transitoria che leghi il nuovo sistema di decadenze e tutele dell’art.28 con le precedenti regolamentazioni delle decadenze [art.32, c.3, lett.a), l. n.183/2010] e della sanzione (art.32, c.5, l. 183/2010), ormai abrogate con decorrenza dal 25 giugno 2015.

In definitiva, il legislatore della riforma ha tentato una “osmosi” per incorporazione della vecchia disciplina delle tutele e delle decadenze nella nuova normativa del “testo unico” sul riordino delle tipologie contrattuali, esattamente come avvenne con il d.lgs. n.368/2001 in sede di recepimento della direttiva 1999/70/Ce con contestuale abrogazione della l. n.230/1962, che la Corte costituzionale con la sentenza n.41/2000 aveva dichiarato già anticipatamente compatibile con il quadro comunitario.

E, esattamente, come è avvenuto nel 2001, il tentativo di cosmesi interpretativa senza soluzione di continuità tra previgente e nuova disciplina delle tutele e delle decadenze in materia di impugnativa di contratti a tempo determinato è fallito.

Infatti, il d.lgs. n. 81/2015 ha abrogato l’art. 32, cc. 5-6, l. n. 183/2010, per l’ipotesi di “conversione” del contratto a termine, escludendo l’apparato sanzionatorio (compreso il termine di 120 giorni per l’«impugnazione del contratto a tempo determinato», ai sensi dell’art. 28, c. 1), dell’indennità onnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che si aggiunge alla “ricostituzione giudiziale” (art. 28, c. 2, 2° cpv., d.lgs. n. 81/2015), nella ipotesi della nullità del termine con conseguente conversione in contratto a tempo indeterminato, cancellata anche dal testo dell’art. 32, c. 3, let. a), l. n. 183/2010, come disposto dall’art. 55, c. 1, let. f), d.lgs. n. 81/2015.

La sanzione contro gli abusi nella successione dei contratti riguarda, ora, soltanto le varie ipotesi di «trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato», che operano in tutti i casi individuati dalla nuova disciplina del termine che già ricadevano nelle previsioni dell’art. 5, d.lgs. n. 368/2001, cioè il c. 2 (sostituito dall’art. 22, c. 2), il c. 3 (sostituito dall’art. 21, c. 2, 1° cpv.) e il c. 4-bis (sostituito dall’art. 19, cc. 2, primo cpv. e 3, 2° cpv., cui adde l’art. 21, c. 1, per l’ipotesi della 6ª proroga).

Il dato letterale di queste scelte frettolose e asistematiche è il mancato coordinamento con la disciplina del c.d. contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. n. 23/2015 è previsto che le disposizioni ivi introdotte si applicano anche nei casi di «conversione», successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.

 

g) La sentenza n.21266/2015 della Cassazione sulla irretroattività del Jobs act

La Suprema Corte con la sentenza in commento fotografa esattamente l’evoluzione normativa innanzi descritta con l’entrata in vigore del d.lgs. n.81/2015, dal momento che l’udienza di discussione della controversia de qua davanti al giudice di legittimità risulta essere quella del 29 settembre 2015.

Il Giudice di legittimità cerca di sanare il (presunto) vuoto normativo creato nel passaggio ad una nuova disciplina sanzionatoria processuale e sostanziale in caso (esclusivamente) di abusi nella successione dei contratti a tempo determinato e lo fa, innanzitutto, confermando condivisibilmente la novità “strutturale” e terminologica della disposizione sulla tutela dell’art.28, c.2, d.lgs. n.81/2015 e la sua inapplicabilità alla fattispecie di causa, anche per la mancanza di una disciplina transitoria o/o di collegamento con la precedente norma abrogata (art.32, c.5, l. n.183/2010), applicabile ai giudizi in corso fino al 24 giugno 2015.

Dopo questa presa di posizione, di indubbio valore nomofilattico e che mette un punto fermo al vizio legislativo delle norme interpretative e/o con efficacia retroattiva - di cui l’art.32, c.7, l.n. 183/2010 è uno degli esempi più eclatanti per quanto riguarda l’indebita ingerenza sui processi in corso - la Cassazione tenta invece di recuperare l’ultrattività della precedente sanzione (abrogata) dell’art.32, c.5, l.n.183/2010 attraverso il richiamo che ne fa il c.7 dello stesso articolo (non abrogato).

Sul punto, le argomentazioni della decisione in esame non possono essere condivise, perché l’abrogazione della norma sostanziale fa perdere di valore ed efficacia, in tutta evidenza, la norma processuale che ad essa è collegata e che, appunto, non ha alcuna necessità di abrogazione esplicita, perdendo automaticamente ogni efficacia.

D’altra parte, un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata di tale nuovo assetto normativo induce a ritenere (al di là dell’intentio legis che impropriamente la Cassazione intende dedurre), che la volontà “formale” del legislatore del Jobs act fosse quella di dare esecuzione ed effettività alla pronuncia Carratù della Corte di giustizia e cancellare, così, sui processi in corso, quel grave vulnus causato da una norma che è andata ad incidere, modificando in maniera ingiustificata la sanzione antiabusiva in danno dei lavoratori, la tutela già riconosciuta ai contratti stipulati fino al 24 novembre 2010 dalla consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito.

Analogo discorso deve proporsi in relazione all’applicazione del regime decadenziale introdotto dall’art.32, c.1, l. n.183/2010 anche per contratti a tempo determinato stipulati a decorrere dal 24 novembre 2010 e fino al 24 giugno 2015 e non impugnati giudizialmente.

Infatti, l’art.32, c.3, let.a), l. n.183/2010, come detto, è stato abrogato per la parte relativa all’impugnativa dei licenziamenti che presuppongono la  risoluzione di questioni relative «alla nullità del termine apposto al contratto di  lavoro,  ai  sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368, e successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6,  che  decorre  dalla cessazione del medesimo contratto, è  fissato  in centoventi giorni, mentre il termine di cui al  primo  periodo  del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni» [la parte virgolettata è quella specificamente abrogata dall’art.55, c.1, let.f), d.lgs. n.81/2015].

Viceversa, non è stato abrogato ed ancora in vigore l’art.32, c.4, l. n.183/2010 nella parte in cui prevede l’applicazione della disciplina delle decadenze di cui all’art.32, c.1, del Collegato lavoro anche ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt.1, 2 e 4 d.lgs. n.368/2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della stessa novella [let.a)], sia a quelli già conclusi alla data del 24 novembre 2010, anche in applicazione delle disposizioni previgenti al d.lgs. n.368/2001 [let.b)].

 

h) Conclusioni: l’applicazione retroattiva dei principi enunciati dalla sentenza Carratù della Cgue

Le scelte legislative vanno rispettate se sono ricondotte nell’alveo di un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata, come in definitiva riviene dalla stessa ermeneutica letterale della disciplina previgente e di quella ora operante.

Non vi è dubbio che così operando trovino linfa operativa le riflessioni e le conclusioni della sentenza Carratù della Corte di giustizia..

In conseguenza, ai giudizi in corso - alla data del 25 giugno 2015 – per la riqualificazione di contratti a tempo determinato stipulati nella vigenza della l. n.230/1962 o del d.lgs. n.368/2001 potrà essere applicata soltanto la tutela “previgente” all’art.32, c.5, l.n.183/2010, cioè quella civilistica prevista dall’art.1419, c.2, c.c. nel caso di nullità del termine contrattuale dei contratti stipulati nella vigenza della l. n.230/1962 e quella speciale dell’art.1, c.2, d.lgs. n.368/2001 nel caso di assunzioni irregolari o illecite a tempo determinato.

Una diversa soluzione, come quella dell’applicazione di una disposizione ormai abrogata che – come una meteora – ha illuminato per meno di cinque anni il panorama del giudizio pendente davanti alla Corte di legittimità nella fattispecie di causa senza entrare mai nel processo ratione temporis, porterebbe inevitabilmente alla violazione dell’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art.1 del 1° Protocollo addizionale Cedu, senza nessuna ragione imperiosa di carattere generale che la possa giustificare.

Per le migliaia di ricorsi di impugnativa di contratti a tempo determinato ancora pendenti in Cassazione, ove definiti rimettendo alle Corti di appello la rideterminazione della sanzione in applicazione dell’abrogato art.32, c.5, l. n.183/2010, si aprirebbe inevitabilmente la deriva di altrettanti giudizi individuali davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per dare effettività di tutela a situazioni sostanziali che avrebbero potuto agevolmente essere definite con i rimedi interni.

Inoltre, i contratti a tempo determinato stipulati dal 24 novembre 2010 e fino al 24 giugno 2015 e non impugnati, ove irregolari o illeciti per violazione degli artt.1, 2 o 4 del d.lgs. n.368/2001, potranno essere delibati giudizialmente con ricorsi da depositare ex nunc, venendo meno la condizione di ammissibilità dell’azione e non potendo né il giudice d’ufficio ai sensi dell’art.2969 c.c. né il datore di lavoro resistente applicare o invocare decadenze che ormai non appartengono all’ordinamento giuridico vigente al momento in cui si richiede la tutela del diritto.

Sicuramente non era questa la vera intentio legis del distratto normopoieuta del Jobs act.

Tuttavia, quando mancano i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e la normativa, come nel caso di specie, non viene costruita nell’interesse generale ma contro qualcuno e in favore di qualcun altro, si ottengono risultati a dir poco aberranti fino a quando, grazie all’intervento delle Corti sovranazionali e al rinnovato vigore della nomofilachia della Cassazione costituzionalmente orientata, l’ordinamento interno riesce a ritrovare quasi magicamente itinerari interpretativi conformi all’effettività della tutela dei diritti fondamentali.

Altrimenti, si continuerà con il caos giudiziario alimentato dalla possibilità della quarta (giudizio Cedu) o della quinta (azione risarcitoria davanti al Tribunale civile contro lo Stato italiano per violazione Ue delle clausole 4, n.1, e 8, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, in combinato disposto, nonché dell’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) istanza per ottenere la giusta e definitiva protezione dei diritti già riconosciuti dal giudice interno competente, violati da norme retroattive che intervengono a distruggere l’equo processo e che continuano ad essere applicate anche quando sono state abrogate, come un treno in corsa senza più rotaie.

Facciamolo deragliare in pace il treno dell’art.32, c.5, l. n. 183/2010 e facciamo in modo che termini questa folle corsa che ha messo in crisi il sistema processuale del lavoro, soprattutto in Cassazione.

 



[1] (*) Questo lavoro è dedicato al Presidente Sergio Mattone, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere sia come autorevole Magistrato che come raffinato Giurista. Il Suo dolce intelligentissimo sorriso, la Sua capacità di dialogo con l’avvocatura, la protezione silenziosa di quei Suoi Colleghi che si sono sforzati di trovare nuovi percorsi interpretativi di maggior tutela dei diritti fondamentali anche davanti alla Corte Ue, riempiono ancora il vuoto della Sua recente scomparsa. Abbiamo tentato di difendere i principi di diritto affermati in tante sentenze della Suprema Corte da Lui presieduta in tutte le sedi, anche fuori dai confini nazionali. Speriamo di essere stati almeno in parte all’altezza dei Suoi insegnamenti e della Sua umile ma costante azione di garanzia dei diritti dei più deboli, sempre all’interno del processo del lavoro, rifuggendo dalla ragion di Stato e da consorterie interpretative che minavano e continuare a minacciare il principio della parità delle armi e dell’equo giudizio.

[2] Cass., sez.lav., Pres. Roselli, Est. Nobile, sent. 20 ottobre 2015, n.21226.

[3] V. il commento critico di A. Vallebona, Indennità per il termine illegittimo: palese infondatezza delle accuse di incostituzionalità, su Mass.giur.lav., 2011, nn.1-2, pp.10-13, che ha segnalato peraltro l’applicabilità dell’art.32, c.7, l. n.183/2010 soltanto ai giudizi pendenti in 1° grado. Cfr. anche G. Falasca, Contratto a termine: le norme al vaglio della Corte Ue e della Consulta, in Guid. Lav., n.2, 2011, p.14, che censura l’ordinanza del Tribunale di Trani come espressione di giudizi di valore. Per riflessioni più attente ai gravi riflessi sul piano sistematico del nuovo regime sanzionatorio, v. invece F.M. Putaturo Donati, Il risarcimento del danno nel contratto a termine, in Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n.183, di M.Cinelli e G.Ferraro (a cura di), Torino, 2011, 291 ss.; nonché S. Giubboni, Il contratto di lavoro a tempo determinato nella legge n.183 del 2010, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT - 115/2011, p.15 ss.

[4] Est. Buffa.

[5] Si rimanda a quanto argomentato sulla posizione negativa della Corte costituzionale, quando norme interpretative e/o retroattive in favore dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni hanno violato irreparabilmente diritti fondamentali in materia di lavoro e di previdenza sociale ingerendosi nei processi del lavoro “seriali”, per distruggerne il nerbo vitale, cioè l’imparzialità  del Giudice: cfr. in particolare, V. De Michele, Nuovamente alla Consulta il passaggio del personale ATA dagli Enti locali allo Stato, in Lav.giur., 2008, n.11, 1128 ss.; La tutela comunitaria e internazionale salverà il processo del lavoro italiano?, ivi, 2009, n.2, 145 ss.; Contratto a termine e precariato, Milano, 2009, 1-37; Trattato di Lisbona e diritto del lavoro italiano: un nuovo sistema costituzionale delle fonti e delle tutele, in Il diritto del lavoro nell’Unione europea, a cura di R.Foglia e R.Cosio, 2011, Milano, pp. 53-147; La tutela delle pensioni agricole e l’incostituzionalità interna e UE delle norme retroattive pro-Inps, in Lav.giur., 6, 2011, 560-570; Retroattività delle norme e tutela dei diritti del precariato pubblico da parte dei Giudici nazionali, ivi, 7, 2011, 697-715; La vicenda del personale Ata dopo le superiori giurisdizioni europee e nazionali viene decisa (infine?) dal Tribunale di Treviso, in Lav.giur., 2012, 223-244. Anche autorevole dottrina condivide in gran parte le critiche all’insano contrasto tra Corte costituzionale e Cedu: v. L.Menghini, I contrasti tra Corte Edu e Corte costituzionale sulle leggi retroattive che eliminano diritti di lavoratori e pensionati: qualche idea per un avvio di soluzione, in Riv.dir.lav., 2012, 2, 357 ss.

[6] Cfr. sugli effetti controversi delle decisioni della Cedu Maggio e Agrati, E.Lupo, Pluralità delle fonti ed unitarietà dell’ordinamento, in Il nodo gordiano tra diritto nazionale e diritto europeo, di E. Falletti-V. Piccone (a cura di), 2012, Bari, 31 ss.

[7] Questa la nuova formulazione dell’art.32, c.3, let.a), l. n.183/2010: «a) ai  licenziamenti che presuppongono la  risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di  lavoro,  ai  sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368, e successive modificazioni. Laddove si  faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6,  che  decorre  dalla cessazione del medesimo contratto, è  fissato  in centoventi giorni, mentre il termine di cui al  primo  periodo  del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni».

[8] L’art.32, c.1-bis, l. n.183/2010, introdotto dall’art.2, c.54, l. n.10/2011 (c.d. “mille proroghe”), così prevede: «In sede  di  prima  applicazione,  le  disposizioni  di  cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni  per  l'impugnazione  del  licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011.».

[9] CGUE, sez.III, sentenza 12 dicembre 2013, causa C-361/12 Carratù C. contro Poste italiane. In dottrina, v. L. Menghini, Dialogo e contrasti tra le Corti europee e nazionali: le vicende del personale ATA non sono ancora terminate, in Lav. giur., 2014, 5, 463-465; V. De Michele, Il dialogo tra Corte di giustizia, Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte costituzionale e Corte di Cassazione sulla tutela effettiva dei diritti fondamentali dei lavoratori a termine: la sentenza Carratù-Papalia della Corte del Lussemburgo, in I quaderni europei – Scienze giuridiche, 60, 1 ss.; P. Coppola, I recenti interventi legislativi sul contratto a termine. A forte rischio la tenuta eurounitaria del sistema interno, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2014, n. 198; R. Nunin, Impiego pubblico, violazione delle regole sul contratto a termine e adeguatezza delle sanzioni: spunti recenti dalla Corte di giustizia, in corso di pubblicazione in Riv.giur.lav., 2014; M. Lughezzani, Il principio di parità di trattamento nella dir. 99/70/CE e le sue ricadute sugli ordinamenti interni, in Riv. it. dir. lav., 2014, n. 2, II, 487 e ss.; S. Guadagno, Evoluzione dei regimi risarcitori per il lavoro a termine, parità di trattamento e non regresso, in Arg. dir. lav., 3, 2014, 682-695.

 

[10] Est. Coppola. Sue anche le istanze pregiudiziali alla Corte di giustizia nelle cause C-3/10 Affatato c. ASL Cosenza (su tutto il precariato pubblico, compreso il personale della scuola e di Poste italiane, in qualità di Giudice del Tribunale di Rossano); C-157/11 Sibilio c. Comune di Napoli (sui lavoratori socialmente utili); C-290/11 Della Rocca c. Poste italiane (sul lavoro somministrato a tempo determinato); C-89/13 D’Aniello c. Poste italiane (sull’art. 32, c. 5, l. n. 183/2010, come interpretato dall’art. 1, c. 13, l. n. 92/2012, in una fattispecie di contratto acausale Poste ex art. 2, c. 1-bis, d.lgs. n. 368/2001); C-22/13, C-61/13 e C-62/13 Mascolo, Forni e Racca c. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (sul precariato scolastico); C-63/13 Russo c. Comune di Napoli (sul precariato pubblico non scolastico).

[11] Nella motivazione della sentenza n.155/2014 risulta che anche l’Avvocatura dello Stato aveva preso posizione per l’inammissibilità della questione concernente la presunta irretroattività del milleproroghe: «In punto di rilevanza, la difesa dello Stato evidenzia come parte della giurisprudenza e della dottrina ritenga che il comma 1-bis dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (comma introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge n. 10 del 2011, che ha convertito il d.l. n. 225 del 2010) abbia durata retroattiva. Ne conseguirebbe che il differimento al 31 dicembre 2011 del termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento, in detto comma 1-bis, varrebbe anche per tutte le fattispecie assoggettate ex novo all’onere di impugnazione di cui all’art. 32, per le quali alla data di entrata in vigore dello stesso comma 1-bis, ovvero al 26 febbraio 2011, il termine d’impugnazione introdotto dall’art. 32 era già spirato. Aderendo a tale opzione interpretativa del citato comma 1-bis, la questione risulterebbe irrilevante, in quanto alla fattispecie dedotta in giudizio l’onere d’impugnazione non si applicherebbe. ».

[12] Cass., sez. VI L, Pres. Curzio, Est. Garri, sent. 10 febbraio 2015, n.2494.

[13] Corte app. Bari, Pres. De Cillis, Est. Rubino, sent. 9 ottobre 2015,  n.2275.

[14] Sul punto cfr. V. De Michele, L’interpretazione “autentica” della sentenza Mascolo-Fiamingo della Corte di giustizia UE sulla tutela “energica” del lavoro flessibile alle dipendenze di datori di lavoro pubblici e privati, in europeanrights.eu, 10 gennaio 2015.

[15] L’art.28, c.1, d.lgs. n.81/2015 così dispone: «1. L’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, con le modalità previste dal primo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, entro centoventi giorni dalla cessazione del singolo contratto. Trova altresì applicazione il secondo comma del suddetto articolo 6.».

[16] L’art.28, cc.2-3, d.lgs. n.81/2015 così dispone: «2. Nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro. 3. In presenza di contratti collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 2 é ridotto alla metà.».