PALMA DE MALLORCA 22 I 23 DE GENER DE 2009
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Questioni attuali sul contratto a termine in Italia
Carmen Galizia

contratto a termine è al centro di un ampio ed acceso dibattito in Italia ancor prima dell’emanazione del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368. In via di premessa, occorre ricordare che il D. Lgs. n. 368/2001, di attuazione nell’ordinamento italiano della direttiva comunitaria 1999/70/CE, del 28 giugno 1999, ha ridisegnato completamente la materia, abrogando la principale legislazione e soprattutto la L. n. 230 del 1962.

Oggetto di contrastanti letture, che hanno già riguardato la direttiva europea e l’accordo quadro del 18 marzo 1999 dalla stessa recepito, l’originario assetto del Decreto, integrato dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, è stato di recente modificato da contrapposti provvedimenti di legge intervenuti a breve distanza di tempo: una distanza scandita dal cambiamento di colore della maggioranza di governo alla guida del Paese.

Le considerevoli innovazioni apportate dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247, e dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, ispirate a divergenti linee di politica del diritto, danno la misura dell’avvenuto avvicendamento politico, soffiando sul fuoco della discussione in corso: non soltanto ci consegnano uno scenario da più parti paragonato ad un vero e proprio cantiere aperto, sicuramente complicato dalla diversa origine ideologica di cambiamenti così ravvicinati, ma permettono anche di considerare la contratación temporal come uno dei più importanti terreni di confronto tra opposte visioni e valutazioni dei costi umani e sociali della flessibilità.

Queste semplici considerazioni spiegano l’interesse ad offrire uno spaccato dell’esperienza italiana, in cui grande importanza assume il ruolo della magistratura.

Le più forti incertezze interpretative sono già sorte nella fase immediatamente successiva all’entrata in vigore del Decreto e vanno collegate ai molti silenzi del legislatore del 2001 su aspetti cruciali della disciplina: il significato da attribuire alle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” per cui è consentita la stipula del contratto, la natura eccezionale o derogatoria rispetto all’assunzione a tempo indeterminato, le conseguenze sanzionatorie in caso di invalidità della clausola appositiva del termine, solo per citarne alcune.

La storia recente e travagliata del contratto a termine ci pone dinanzi ad ulteriori aspetti problematici legati ai vincoli imposti dalla Costituzione, rispetto ai quali occorre sin d’ora segnalare una importantissima sentenza della Corte Costituzionale del febbraio 2008, e dalle disposizioni della direttiva 1999/70/CE; aspetti ben fotografati dalla sequenza di decisioni dei giudici di merito che si snoda sul filo di rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia Europea e al nostro Giudice delle leggi o che segue la via dell’interpretazione adeguatrice dell’ordinamento interno a quello comunitario.

Tra le molte questioni che possono essere segnalate si è scelto di privilegiare quelle concernenti la natura delle ragioni che validano il termine ed il nuovo limite posto dal legislatore italiano alla reiterabilità dei contratti. Una breve rilettura dell’evoluzione del dato legale consentirà di cogliere la portata innovativa dell’attuale disciplina insieme a quella vera e propria “questione prodromica” collegata e conseguente alle ombre che la citata sentenza della Corte Costituzionale del 2008 getta sul suo stesso futuro.

Il contratto a termine in bilico tra passato e futuro.

Volgendo lo sguardo al passato, non è superfluo rammentare l’accentuato sfavore per lungo tempo manifestato dall’ordinamento italiano nei confronti di uno strumento contrattuale potenzialmente lesivo dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione e ai diritti fondamentali alla stessa collegati.

Della Legge n. 230 del 1962, abrogata dopo un quarantennio di vigenza dal D. Lgs. n. 368 del 2001, va in effetti sottolineata l’essenziale finalità antifraudolenta concretizzatasi nella presunzione di durata indeterminata del rapporto di lavoro ed in una disciplina fortemente restrittiva, puntellata dal principio di non discriminazione: quel lontano provvedimento stabiliva, da un lato, un rigido sistema di tipizzazione legale delle causali giustificative, ove l’apposizione del termine era possibile in casi circoscritti e legati ad occasioni di lavoro oggettivamente temporanee, dall’altro, regole ferree in materia di proroga.

Soltanto in una fase successiva, di drammatica emergenza occupazionale, si assiste ad un lento e graduale processo di allentamento dei limiti legali alla stipula del contratto, nella prospettiva di un progressivo apprezzamento del lavoro a termine sia quale risposta alle esigenze di flessibilità organizzativa espresse dal sistema produttivo, sia quale misura, pur precaria, in grado di ridurre gli accresciuti livelli di disoccupazione in un sistema giuridico non più connotato dalla libera recedibilità delle parti dal rapporto di lavoro.

Questo processo di flessibilizzazione raggiungeva il suo massimo grado di intensità con l’art. 23 della L. n. 56/1987, che accordava alla contrattazione collettiva il potere di stabilire ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine, oltre a quelle legalmente definite, con l’unico limite della contestuale individuazione della soglia percentuale di lavoratori assumibili a termine rispetto al personale impegnato a tempo indeterminato.

Il filtro dell’autonomia collettiva, fonte legittimata espressamente dalla legge mediante una vera e propria delega in bianco, fungeva in tal modo da garante di un allentamento controllato delle tutele dispensate dal legislatore, secondo la nota tecnica regolativa della flessibilità negoziata.

Su questo assetto nazionale si innesta il D. Lgs. n. 368 del 2001, la cui storia non merita qui di essere ripercorsa, se non per evidenziare due specifici aspetti di interesse: la spaccatura sindacale, sancita da un accordo “separato”, privo dell’assenso della CGIL, rispetto alla quale grande importanza acquisisce il Protocollo del 23 luglio 2007, cui la Legge n. 247/2007 dà attuazione, come “patto sociale con il quale Governo, sindacati e imprese rifondano la complessiva disciplina del lavoro flessibile”[1]; ed ancor prima, la scelta di inserire nella Legge comunitaria 29 dicembre 2000, n. 422, che delegava il Governo ad attuare una molteplicità di direttive, anche la direttiva 1999/70/CE.

 Ora, la trasposizione della direttiva non ha costituito che una mera occasione per realizzare una generale riforma della materia; è opinione diffusa, anche confortata dalla nota decisione della Corte Costituzionale n. 41 del 2000, che il nostro diritto interno, salvo aspetti marginali, fosse già conforme alla disciplina comunitaria.

E di questa complessiva riforma la più forte carica innovativa risiede, senza ombra di dubbio, nelle modalità di individuazione delle ipotesi legittimanti il ricorso al contratto. Superando  il principio di tassatività, il legislatore del 2001 fonda l’attuale regime su di una causale autorizzativa di carattere generale, in base alla quale “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (art. 1, comma 1). Una svolta radicale, dunque, che enfatizza l’autonomia individuale, rectius datoriale, ma anche il controllo giudiziario per l’elevato tasso di incertezza introdotto nel sistema, e che specularmente mortifica gli spazi di controllo sui rapporti temporanei riservati all’azione del sindacato e alla contrattazione collettiva.

Una riforma di così ampia portata non era certamente preclusa al legislatore nazionale; ciò nonostante, le specifiche modalità con cui essa si realizza possono somministrarle un fondamentale vizio genetico, suscettibile di ipotecarne il futuro.

Si è già fatto cenno alla recente sentenza n. 44 del 2008 della Corte Costituzionale. Si tratta di una decisione concernente il diritto di precedenza nelle assunzioni per i lavoratori stagionali, ma suscettibile di scuotere dalle fondamenta l’intera costruzione normativa.

Come ha avuto modo di sottolineare la Corte Costituzionale, la Legge delega n. 422/2000, in forza della quale il Decreto Legislativo n. 368 è emanato, concerne soltanto, avendo quale oggetto esclusivo, l’attuazione della normativa europea. La sottolineatura è estremamente importante giacché, richiamando la sentenza Mangold della Corte di Giustizia, per cui la clausola 5 della direttiva è circoscritta alla “prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato”, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità per assenza di delega (ex art. 77, comma 1, Cost.) delle disposizioni censurate, che non si collocano né nell’ambito coperto dalla direttiva, come poc’anzi definito, né nel perimetro tracciato dal legislatore delegante, con conseguente reviviscenza della disciplina abrogata[2].

La dottrina ha subito rimarcato il sostanziale accoglimento dell’interpretazione dei vincoli comunitari offerta dalla citata sentenza Mangold, che ne limiterebbe l’oggetto alla prevenzione degli abusi e delle discriminazioni. Ora, se è questo il raggio d’azione che delimita, secondo i giudici costituzionali, l’area del corretto esercizio della funzione legislativa da parte del Governo, una particolare condizione di “precarietà” finisce per avvolgere buona parte del D. Lgs. n. 368/2001 sotto la «spada di Damocle» della censura di incostituzionalità. In special modo esposto ad una situazione di instabilità è il pilastro stesso della riforma, ossia la norma contenente la generica causale autorizzativa sopra riportata, estranea alle prescrizioni comunitarie in quanto riferibile al primo contratto a termine, non agli abusi da successione. Ed in effetti non si è dovuto attendere molto per cogliere i primi concreti segnali di un preannunciato scricchiolio dell’edificio normativo sotto il peso schiacciante della delega a suo tempo conferita[3].

Una possibile sponda ad un “ripristino strutturale” che consenta di scongiurare un imminente collasso o implosione è tuttavia fornita da una quanto mai tempestiva sentenza della Corte di Cassazione del 21 maggio 2008, n. 12985 (in Dir. lav. merc., 2008, 385 ss., con nota di Quaranta), la prima a pronunciarsi su una questione relativa alla disciplina vigente. I giudici di legittimità, anche attraverso il richiamo alle sentenze Mangold e Adelener, estendono al massimo la portata regolativa delle norme comunitarie, respingendo esplicitamente la tesi dell’estraneità del primo ed unico contratto a tempo determinato dal loro campo di applicazione. La Suprema Corte suggella invece l’opinione della dottrina maggioritaria che, da un’analisi coordinata dell’insieme delle previsioni del medesimo accordo quadro, ricava l’opposto principio secondo cui il ricorso al contratto a termine, anche in occasione della stipula del primo contratto, va limitato[4].

È importante evidenziare come l’approccio sistematico adottato dalla Corte di Cassazione aspiri ad essere “conservativo” del D. Lgs. n. 368/2001: circostanza ben rappresentata dall’asserita compatibilità con quanto statuito appena tre mesi prima dalla Corte Costituzionale, che si sarebbe limitata ad esaminare soltanto la specifica questione rimessa alla sua attenzione.

La perdurante eccezionalità del contratto a termine rispetto al contratto a tempo indeterminato.

Quanto accennato a proposito della tesi secondo cui la disciplina di un unico contratto a termine è libera da vincoli comunitari ci agevola nel segnalare un primo fondamentale problema interpretativo posto dal D. Lgs. n. 368/2001, ossia il rapporto esistente tra il contratto di lavoro a tempo indeterminato e quello a termine.

Questo problema nasce dal fatto che la riforma realizzata del 2001, nel liberare le assunzioni a termine dalla gabbia della tipicità, ha cassato la presunzione legale di durata illimitata del contratto con la quale esordiva la normativa precedente e dalla quale derivava un rigido rapporto nei termini di regola/eccezione[5], rafforzando la convinzione che la modalità di impiego in esame sia stata collocata sullo stesso piano, ed elevata ad alternativa, rispetto a quella a tempo indeterminato.

Confortato dalla circolare ministeriale n. 42/2002, l’orientamento in questione[6] ritiene che le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” di cui all’art. 1, comma 1, D. Lgs. n. 368/2001 devono essere tarate sull’interesse d’impresa e sulla libera interpretazione che dello stesso dà l’imprenditore.

Il lavoro a termine sarebbe consentito non solo a fronte di esigenze aziendali ontologicamente transitorie, in un’ottica di extrema ratio, ma anche al cospetto di un’occasione permanente di lavoro, purché sussista una ragione oggettiva non arbitraria o illecita che renda in concreto preferibile per il datore un rapporto a termine. Logico corollario di questo mutato status giuridico è, da un lato, che l’obbligo di specificare nell’atto le ragioni legittimanti il termine (art. 1, comma 2), prima stabilito solo per l’assunzione in sostituzione di lavoratori assenti, postula un controllo giudiziale che non può esigere l’inevitabilità del termine stesso, dovendo limitarsi ad un mero accertamento della reale sussistenza e permanenza della ragione addotta dal datore; dall’altro lato, che la mancanza di un’esplicita sanzione per l’ipotesi di termine ingiustificato comporta l’applicazione della regola della nullità parziale di cui all’art. 1419, comma 1, cod. civ., con il risultato della nullità dell’intero contratto di lavoro in caso di essenzialità della clausola del termine senza la quale le parti non avrebbero concluso il contratto stesso.

L’assenza di un chiaro riferimento al carattere normalmente a tempo indeterminato del contratto di lavoro è stata tuttavia colmata, con inedita metodologia, dalla L. n. 247/2007, emanata in attuazione del Protocollo stipulato tra Governo e parti sociali il 23 luglio del medesimo anno. Il legislatore ha inserito il comma 01 in premessa all’art. 1 del Decreto n. 368/2001, mettendo nero su bianco che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”.

L’enunciazione di principio, ritagliata su quella contenuta nel Preambolo della direttiva europea secondo cui i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro, esclude una qualsivoglia equiparazione delle due forme contrattuali, in quanto l’una risulta derogatoria rispetto all’altra, ma non reintroduce affatto una presunzione legale a favore del contratto a tempo determinato: più semplicemente, come afferma la circolare n. 13/2008, essa “esprime l’intento del legislatore di ribadire che tale tipologia contrattuale rappresenta la fattispecie “ordinaria” di costituzione dei rapporti di lavoro”.

Ed in effetti è importante sottolineare che la “centralità” del contratto senza limiti di durata, con la connessa regola della trasformazione ex lege, è stata comunque mantenuta in vita, prima dell’introduzione del comma “premesso”, dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente, sicché nell’ordinamento italiano non si è mai concretizzata quella fisiologica equivalenza o perfetta fungibilità ipotizzata dalla tesi ricostruttiva che prospettava il superamento della causalità del termine.

La dottrina maggioritaria ha evidenziato la non conformità di una diversa scelta interpretativa alla direttiva 1999/70/CE, ascrivendo un valore giuridico, e non soltanto politico, al Preambolo e alle Considerazioni generali dell’accordo quadro europeo che essa recepisce; in sostanza, il principio ora esplicitato dal legislatore italiano doveva già considerarsi come parte integrante della legge in virtù del primato della norma comunitaria su quella nazionale. Del resto, si è anche subito osservato che l’art. 1, comma 1, cit. è pienamente coerente con detto principio giacché consente l’apposizione del termine soltanto “a fronte” delle indicate ragioni giustificative[7].

Sul versante della conversione del rapporto si è ricorso soprattutto al citato art. 1419, comma 2, cod. civ., secondo cui le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative, ossia dalla regola generale sul lavoro a tempo indeterminato[8].

Si tratta, come si accennava, di opzioni interpretative prevalse anche nell’applicazione giurisprudenziale.

Una prima presa di posizione della Suprema Corte (nella sentenza del 21 maggio 2002, n. 7468, in cui asserisce che anche dopo il d. lgs. n. 368/2001 “il termine costituisce deroga di un generale sotteso principio: il contratto di lavoro subordinato, per sua natura, non è a termine”) ha inaugurato un orientamento pressoché costante dei giudici di merito volto a riaffermare il carattere derogatorio del contratto a termine rispetto alla regola di quello sine die. Orientamento, questo, che ha da ultimo trovato conferma nella menzionata decisione della Corte di Cassazione del maggio 2008, intervenuta temporalmente a ridosso della sentenza della Consulta n. 44/2008.

La Cassazione riannoda i fili delle argomentazioni utilizzate dai giudici di merito e, in particolare, fonda la sanzione della conversione del contratto ingiustificato (in applicazione del secondo comma dell’art. 1419 cod. civ.) sulla natura imperativa dell’art. 1 cit., norma che subordina l’apposizione del termine alla sussistenza di condizioni sostanziali e formali. Significativo è, inoltre, il fugace richiamo operato alla clausola comunitaria di non regresso, preclusiva di una riduzione delle tutele già presenti nell’ordinamento interno, con il quale sembra chiudersi il cerchio “conservativo” dell’attuale regolamentazione che la Corte traccia sull’ampia area di operatività riconosciuta alla direttiva europea[9].

L’integrazione del dettato originario dell’art. 1 del Decreto si colloca, quindi, in uno scenario già improntato alla regola dell’assunzione a tempo indeterminato; è però possibile trarre dalla novella del 2007 un dato importante giacché essa rafforza l’indirizzo predominante emerso in dottrina e nel diritto vivente, privando di fondamento la tesi che tuttora fa leva sulla mancata previsione di un effetto legale di conservazione del contratto per escluderne la conversione[10].

La necessità dell’intrinseca temporaneità delle ragioni giustificative.

L’affermazione legale del lavoro a tempo indeterminato come forma normale di impiego incrocia un’ulteriore questione, saldamente connessa a quella appena esaminata, vertente sulla necessità o meno che le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo poste a fondamento del contratto siano intrinsecamente contraddistinte dalla temporaneità.

La questione, davvero cruciale, interessa il solo settore privato dal momento che le pubbliche amministrazioni si possono avvalere delle forme contrattuali flessibili unicamente per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti[11].

In estrema sintesi, anche su questo punto si fronteggiano due opposte ricostruzioni.

Si è detto dell’orientamento secondo cui la riforma del 2001 ha aperto la strada ad una sostanziale liberalizzazione delle assunzioni a tempo determinato, che incontra l’unico limite del divieto di arbitrarietà.

La tesi prevalente più opportunamente ritiene che il legislatore abbia ancorato la legittimità del contratto ad esigenze non solo oggettive, ma anche temporanee: proprio perché il termine è una deroga rispetto al tempo indeterminato, le ragioni di cui si discute non possono che riferirsi ad esigenze lavorative temporanee e transitorie, destinate ad esaurirsi in un arco temporale delimitato. La flessibilità introdotta dalla nuova disciplina consiste allora, in primo luogo, nell’affrancamento da casistiche predeterminate; secondariamente, nell’affrancamento della temporaneità (o meglio del difetto di stabilità ex ante) dell’esigenza datoriale da ulteriori caratteri restrittivi quali la straordinarietà, la non occasionalità, l’eccezionalità, la irripetibilità.

Posta tale premessa, è agevole comprendere come quest’ultimo orientamento abbia giustamente attribuito alla novella del 2007 l’obiettivo di “riaffermare il profilo causale del contratto a termine (già espresso dall’art. 1 del D. Lgs. n. 368/2001 come norma che autorizza questo rapporto solo in presenza di ragioni oggettive), sottolineando la sua «alterità di contenuto» rispetto al lavoro stabile”[12].

Il dibattito sul punto più delicato e controverso della disciplina italiana, comunque non sopito, si è tuttavia arricchito in un breve volgere di tempo di un ulteriore elemento di novità per effetto di quella che nelle intenzioni del legislatore di centro-destra assume i caratteri di una vera e propria controriforma. La L. n. 133 del 2008 ha infatti integrato il disposto del più volte citato art. 1, comma 1, precisando che l’apposizione del termine è consentita anche se le previste “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” sono “riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”.

Da notare è che l’inciso così aggiunto al primo comma rende la disposizione sostanzialmente identica a quella già prevista in materia di prestación de trabajo a traves de una Empresa de Trabajo Temporal, equiparando, come in Spagna, le condizioni di accesso ai due istituti giuridici. Il medesimo inciso, inoltre, lascia immutata l’originaria formulazione della norma, e quindi la sua natura autorizzatoria e permissiva, come immutato resta il comma premesso dalla L. n. 247/2007.

L’innovazione che consente la stipula del contratto anche per esigenze riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro non sembra suscettibile di scalfire l’opinione secondo la quale deve trattarsi di esigenze di carattere temporaneo. I suoi fautori, proprio riprendendo quanto asserito a proposito del lavoro a termine, hanno già avuto modo di confutare la tesi della acausalità in tema di contrato de puesta a disposición, mediante una lettura del riferimento “all’ordinaria attività” dell’impresa non incompatibile con l’intrinseca temporaneità della causale giustificativa[13].

La più recente dottrina che accoglie tale lettura, ben nota nell’esperienza spagnola in relazione al contrato para obra o servicio determinado, oltre a far leva sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia, pone l’accento sul “preciso segnale normativo” costituito dalla mancata abrogazione del principio secondo cui il contratto di lavoro è stipulato di regola a tempo indeterminato: per quanto riduttivamente possa essere interpretato, esso “implica che le esigenze e le ragioni tecniche non possono essere stabili, pur afferendo ad attività ordinarie”[14].

L’opposta opinione ricava, invece, dal sensibile ridimensionamento di questo stesso principio l’implicita conferma dell’irrilevanza della natura delle discusse esigenze e, di conseguenza, una conferma del carattere antifraudolento della normativa italiana, che all’art. 1 non pone divieti all’impiego del lavoro a termine, ma impone unicamente l’onere di esplicitare le ragioni anzidette, che restano di esclusiva pertinenza datoriale[15].

Se la contrapposizione tra i fautori della temporaneità e i sostenitori della natura acausale del termine resta più che mai viva ad oltre sette anni dal varo della riforma, anche i giudici del lavoro si stanno confrontando su questo nodo problematico di così estrema rilevanza.

Nel panorama giurisprudenziale pare consolidarsi sempre di più una linea interpretativa che riafferma il criterio della temporaneità e valuta con estremo rigore l’adempimento dell’obbligo di indicare e specificare per iscritto le ragioni giustificative. Utilizzando le parole dei giudici di merito: “le ragioni oggettive” devono essere “esattamente individuate” nel contratto e qualificarsi “con i connotati della strutturale temporaneità”, in modo da rendere accertabile “il nesso di causa fra quella ragione oggettiva e quella assunzione temporanea”[16].

Non soltanto l’apposizione del termine deve rispondere ad esigenze temporanee, ma è anche onere del datore di lavoro indicare per iscritto la ragione concreta che giustifica l’assunzione e provare l’effettiva esistenza di questa ragione (in sé temporanea e oggettiva, ossia di natura tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva) e del nesso di causalità fra il termine e la prestazione lavorativa. Ecco perché si è potuto affermare che il D. Lgs. n. 368/2001 ha evocato nell’immaginario degli interpreti una liberà individuale più apparente che reale: la libertà creatrice del datore di lavoro deve di fatto fare i conti con un “contrappeso” dagli esiti incerti e non prevedibili, qual è il controllo del giudice, laddove a più tranquilli approdi conducono le vecchie causali o quelle tuttora confezionate dalla contrattazione collettiva[17].

Non è certamente possibile sapere se ed in quale misura il quadro giurisprudenziale risentirà dell’innegabile apertura del legislatore verso la contratación temporal. Vi è però da ribadire che il riferimento all’ordinaria attività dell’impresa appare troppo ambiguo perché se ne possa ricavare l’antitetica conclusione della natura non temporanea della ragione giustificativa del termine. Un sostanziale rovesciamento di impostazione avrebbe richiesto una modifica ben più incisiva, una chiara presa di posizione che non emerge affatto dall’enunciato normativo.

Sembra invece possibile sostenere che della novella del 2008 non risentirà l’atteggiamento assunto dall’autonomia collettiva, che ha già mostrato una considerevole capacità di resistenza ad innovazioni legali non gradite. Occorre, al riguardo, sottolineare la tendenza della negoziazione collettiva a riappropriarsi di spazi che il dato normativo pareva averle sottratto, in special modo riconquistando la funzione di definire i presupposti causali del contratto e ponendo rilevanti questioni sul terreno del rapporto tra legge e contratto collettivo. L’intrinseco elemento della temporaneità caratterizza le causali indicate dalle parti sociali che, quando procedono ad una tassativa enunciazione delle ipotesi consentite, autonomamente svolgono la stessa funzione «escludente» assegnata dal legislatore spagnolo ai soggetti collettivi in relazione al contrato para obra o servicio determinado.

La successione nel tempo dei contratti a termine.

Una più chiara direzione di marcia è impressa all’ordinamento italiano per quanto riguarda il fenomeno della successione nel tempo delle assunzioni a termine, regolato dall’art. 5 del D. Lgs. n. 368/2001. Le modifiche apportate dalla L. n. 247/2007 rappresentano una chiara presa d’atto della necessità di contrastare la c.d. trappola della precarietà che può celarsi dietro la possibilità, prima consentita, di utilizzare sempre lo stesso lavoratore mediante una pluralità di contratti a termine, senza alcun limite se non quello del rispetto di un intervallo temporale minimo.

Per liberare il lavoratore da una simile condizione di continua precarietà, e quindi per favorire la stabilizzazione del rapporto che il datore ha interesse ad evitare o quantomeno a differire il più a lungo possibile, la L. n. 247/2007 integra la disciplina originaria della successione dei contratti con la previsione di un tetto massimo di 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi[18]: deve però trattarsi di contratti conclusi tra le stesse parti e per lo svolgimento di mansioni equivalenti.

Il successivo provvedimento del legislatore di centro-destra, ossia la Legge n. 133/2008, a sua volta consente che una deroga alla soglia temporale dei 36 mesi possa essere prevista, anche in termini peggiorativi, dai contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La medesima legge, nel modificare la disciplina del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, stabilisce che esse non possono ricorrere all’utilizzo dello stesso lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio (v. art. 36, comma 3, D. Lgs. n. 165/2001).

Concentrando l’attenzione sul settore privato, è da rimarcare che il superamento del trentaseiesimo mese determina la trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato qualora esso si protragga per ulteriori venti giorni[19].

La previsione di un limite temporale entro il quale devono essere contenute le assunzioni a termine configura, come in Spagna, un’ipotesi legale di frode alla legge, il che rende interessante mettere a fuoco, seppure concisamente, le principali differenze rispetto alla soluzione predisposta dal legislatore spagnolo del 2006.

Una preliminare riflessione attiene all’esigenza di ottemperare agli obblighi comunitari. Al riguardo è appena il caso di ricordare che la Legge spagnola del 29 dicembre 2006, n. 43, risponde alla necessità di portare ad effettivo compimento la trasposizione della direttiva 1999/70/CE.

La colorazione comunitaria della riforma italiana, chiaramente riconducibile alla seconda delle alternative ipotizzate dalla clausola 5 della direttiva, insieme alla più volte citata sentenza Adelener, concernente una disposizione dell’ordinamento greco pressoché identica a quella dell’art. 5 del D. Lgs. n. 368/2001, potrebbero indurre a ritenere che si sia, anche in questo caso, al cospetto di un mero adempimento dell’obbligo traspositivo. In realtà, è opinione largamente diffusa che il meccanismo di nuova introduzione sia rivolto ad offrire una più solida garanzia in ordine alla finalità perseguita dalla direttiva, la protezione del lavoratore contro l’instabilità dell’impiego, nell’ambito di un contesto normativo da considerare già conforme alla disciplina europea: conformità soprattutto ricavata dall’imposizione di una ragione obiettiva per ogni singolo contratto di lavoro a termine (e, quindi, sia quello iniziale sia gli eventuali rinnovi) e non soltanto per la sua proroga; inoltre, tutt’altro che trascurabile è la possibilità, ammessa da un corposo indirizzo dottrinale, di dimostrare l’esistenza di una frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 cod. civ.[20]

Passando ad esaminare più attentamente i requisiti che delimitano l’applicabilità del meccanismo di tutela previsto nei due ordinamenti, la via prescelta dal legislatore spagnolo appare già prima facie più efficace.

Come evidenziato, la disciplina italiana considera la sola successione di carattere soggettivo, mentre quella spagnola, pur rispondendo ad un disegno non a torto reputato “en exceso liviano[21], almeno prende atto degli abusi posti in essere con la distinta formula della successione oggettiva, imponendo alla sede negoziale l’obbligo di stabilire i criteri volti a prevenirli.

A parte questa macroscopica differenziazione, anche limitando l’analisi alle modalità volte a scongiurare la precarizzazione del singolo lavoratore, molto più incisive e rigorose risultano le innovazioni adottate dalla Ley para la mejora del crecimiento y del empleo.

Se in tal senso viene subito in rilievo il tetto dei 24 mesi posto alle ripetute assunzioni, a fronte del triennio italiano, a ben guardare è sul piano generale della tecnica adoperata che vince, e non di misura, la legislazione spagnola.

La più ampia estensione temporale del limite italiano presumibilmente si spiega con la scelta di non introdurre un arco temporale di riferimento. A prima vista si potrebbe ritenere che sia questa un’opzione più favorevole per il lavoratore, ma non è così. Essa determina, infatti, un divieto assoluto di riassunzione del lavoratore, le cui opportunità occupazionali finiscono con l’essere penalizzate anche là dove, ed è il caso dei contratti stipulati a notevole distanza di tempo, non è dato riscontrare quell’esigenza di tutela che presuppone una “spirale di precarietà” e costituisce la ratio della riforma del 2007. Tenuto conto di questo irragionevole effetto, che, giova ribadire, avrebbe potuto essere evitato tramite l’utilizzo di una tecnica regolativa analoga a quella adottata nell’ordinamento spagnolo, ossia con l’indicazione di più ampio arco temporale entro cui calcolare la durata massima, la dottrina si divide tra chi opportunamente si limita a censurare nel merito la scelta del legislatore, chi ne prospetta l’incostituzionalità, chi propone un’interpretazione evolutiva non arrendendosi al dato letterale[22].

Alle modalità di verifica del limite legale è legato anche un ulteriore aspetto di maggiore fragilità della misura italiana: poiché si computano esclusivamente i contratti a termine intercorsi tra le stesse parti, deve escludersi la prestación de trabajo a traves de una Empresa de Trabajo Temporal. Di qui il rischio di un allungamento a dismisura del periodo massimo consentito, ottenuto alternando contratti a tempo determinato e contratos de puesta a disposición del medesimo lavoratore; rischio accettato dal legislatore italiano ed esplicitamente scongiurato dall’art. 15 ET.

Sempre a proposito dell’area di possibile incidenza del limite temporale alla successione dei contratti vanno rimarcate le tre tipologie di deroghe previste dal D. Lgs. n. 368/2001.

La prima, già evidenziata, è quella che, rimessa alla valutazione dell’autonomia collettiva, ha per oggetto la tassatività della durata massima di 36 mesi.

La seconda sottrae alla misura in discorso le attività stagionali di cui al D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modifiche e integrazioni, nonché quelle individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative.

La terza consiste nella possibilità di superare la soglia massima attraverso una procedura amministrativo-sindacale che è stata ricondotta ad un’ipotesi di “autonomia individuale assistita”. Il legislatore accorda alle parti individuali la facoltà di stipulare un ulteriore contratto a termine, nei limiti di durata stabiliti dagli avvisi comuni siglati dalle contrapposte organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a patto che la stipula avvenga presso la Direzione provinciale del lavoro e con l’assistenza di un rappresentante sindacale qualificato. Il mancato rispetto della procedura fa sì che il c.d. contratto in deroga si consideri a tempo indeterminato.

Tenuto conto dell’ambito di applicazione del meccanismo previsto dall’art. 15 ET, è agevole apprezzare il maggior rigore della legislazione spagnola[23].

Non a caso l’opinione più critica nei confronti dell’intervento riformatore del legislatore italiano sottolinea l’assenza di un limite certo alla durata massima totale delle assunzioni successive. In quest’ultima ottica la nostra disciplina può essere ritenuta conforme al diritto comunitario soltanto grazie al carattere temporaneo delle ragioni che giustificano le ripetute assunzioni: è nella temporaneità delle ragioni giustificative che occorre individuare la vera misura anti-elusiva messa in campo dall’ordinamento italiano[24]. Secondo un’altra lettura si è invece al cospetto di un riposizionamento della legge nazionale rispetto alla direttiva europea che rafforza la tesi diametralmente opposta: la temporaneità opera, cioè, unicamente come limite esterno al complesso dei contratti di lavoro stipulati con il medesimo lavoratore ed è, pertanto, sul versante degli oneri formali, insieme a quello della soglia temporale massima, che continua a manifestarsi la perdurante, sebbene sbiadita, eccezionalità del lavoro a termine[25].

Le prospettive appena illustrate, che nuovamente conducono alla riferita contrapposizione dottrinale sulla giustificazione causale del contratto, consentono di sottolineare come questo cruciale problema non potrà dirsi pienamente risolto se non attraverso l’applicazione giurisprudenziale. In fin dei conti, nonostante i ripetuti interventi del legislatore, è la giurisprudenza che storicamente nel diritto del lavoro ha definito il rapporto di equilibrio tra le esigenze dell’impresa ad un impiego flessibile della manodopera e quelle del lavoratore a sottrarsi ad uno stato di precarietà.



[1] A. Maresca, Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, d. lgs. n. 368/2001, in Riv. it. dir. lav, 2008, I, 288-289 (cit. 289).

[2] La sentenza può leggersi in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 504 ss., con nota di Quaranta. Le norme censurate sono gli artt. 10, commi 9 e 10, ed 11, comma 1 e 2, D. Lgs. n. 368/2001 il cui combinato disposto aveva abrogato il dettato dell’art. 23, comma 2, L. n. 56 del 1987 e spostato la fonte del diritto di precedenza nelle assunzioni per i lavoratori stagionali dalla norma legale a quella collettiva. Va tuttavia evidenziato che su questo specifico punto era già prima intervenuta la L. 24 dicembre 2007, n. 247, cui si deve una nuova e più ampia regolamentazione, poi integrata dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.

[3] Ci si riferisce alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trani (con ordinanza del 21 aprile 2008, in Mass. giur. lav., 2008, 571 ss.) in riferimento alla regola della necessaria indicazione nel contratto del nome del lavoratore sostituito, prevista dalla L. n. 230/1962 e soppressa dal D. Lgs. 238/2008.

[4] V., per tutti, A. Bellavista, La direttiva sul lavoro a tempo determinato, in A. Garilli, M. Napoli (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Giappichelli, Torino, 2003, 14. Contra A. Vallebona, C. Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, Padova, 2001, 67 ss.

[5] L’art. 1, comma 1, della L. n. 230/1962 recitava testualmente che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni” previste; è ben noto che l’art. 15, comma 1, ET, esprimeva inizialmente un’analoga opzione, in linea di continuità con gli artt. 14 e 15 della Ley de Relaciones Laborales del 1977, ispirati proprio alla legge italiana.

[6] V. per tutti A. Vallebona, I requisiti sostanziali di ammissibilità del termine: le nuove clausole generali giustificative ed il problema dell’onere della prova, in L. Menghini (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, Ipsoa, Milano, 2002, 62 ss.; F. Bianchi d’Urso, G. Vidiri, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, in Mass. giur. lav., 2002, 120-124.

[7] Per il primo rilievo v., in particolare, V. Speziale, La nuova legge sul lavoro a termine, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2001, 377 ss.; R. Altavilla, I contratti a termine nel mercato differenziato, Giuffrè, Milano, 2001, 241. Per il secondo, G. Pera, Sulla nuova disciplina del contratto a termine e sul regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 16.

[8] V. per tutti V. Speziale, La nuova legge sul lavoro a termine, cit., 406 ss.; per un’identica conclusione, ma con diverso iter argomentativo, L. De Angelis, Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti, in L. Menghini (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, cit., 125. Da notare è che l’effetto legale della conversione è affermato anche da chi sostiene la “acausalità” del contratto: v. M. Tiraboschi, Apposizione del termine, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine,  Giuffrè, Milano, 2002, 105.

[9] Vale la pena sottolineare che la Corte Costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi anche in merito ad una possibile violazione della clausola di non regresso, questione non affrontata in virtù della dichiarata mancanza di delega.

[10] Così anche M. Roccella, “Vorrei ma non posso”: storia interna della più recente riforma del mercato del lavoro, in Lav. dir., 2008, 416, nota 12. Per la tesi minoritaria sopra richiamata si vedano le sentenze dei giudici del Tribunale di Roma (del 27 maggio 2008, 12 marzo 2008 e 5 luglio 2007) in Mass. giur. lav., 2008, 772 ss.; prima di Cassazione 21 maggio 2008, n. 12985, cit., v. Tribunale di Palermo, 6 maggio 2006, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 395 ss.; Tribunale di Roma, 21 febbraio 2005, in Riv. giur. lav., 2006, II, 706. Per la giurisprudenza, assolutamente dominante, di segno contrario: Tribunale di Genova, 14 novembre 2006, in Riv. giur. lav., 2007, II, 693 ss.; Tribunale di Milano, 9 ottobre 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2007, 123 ss.; Tribunale di Treviso, 26 settembre 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2008, 153 ss.; Tribunale di Roma, 3 febbraio 2005, e Tribunale di Roma 12 gennaio 2005, in Riv. giur. lav., 2006, II, 706 ss.; Tribunale di Monza, 18 gennaio 2005, e Tribunale di Milano, 14 novembre 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 152 ss.

[11] Così dispone l’art. 36, comma 2, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (c.d. Testo unico del pubblico impiego). Questo articolo, recentemente riscritto dalla L. n. 133/2008, sancisce al comma 1 che “per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

[12] Così V. Speziale, La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 191-192, che per primo ha sostenuto la tesi della necessaria sussistenza di una ragione strutturalmente temporanea. Ad una conclusione analoga a quella riportata nel testo giungono C. Alessi, La flessibilità del lavoro dopo la legge di attuazione del protocollo sul welfare: prime osservazioni, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT–68/2008, 5; M. Roccella, “Vorrei ma non posso”, cit., 416 ss.; M.P. Aimo, Il contratto a tempo determinato riformato: le scelte compiute e le implicazioni possibili, in Lav. dir., 2008, 466-467.

[13] Anche nell’ambito dell’ordinaria attività ci possono essere delle esigenze di carattere temporaneo, esigenze che si ripetono nel tempo ma che non hanno una continuità tale da dover essere considerate come “stabili”: V. Speziale, Il contratto commerciale di somministrazione di lavoro, in Dir. rel. ind., 2004, 330-331.

[14] B. Caruso, La flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. 133/08 (quando le oscillazioni del pendolo si fanno frenetiche), in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT–79/2008, 13, che richiama la sentenza Adelener. Di tale sentenza valorizzano il passaggio che censura la legge greca perché sembra “soddisfare di fatto «fabbisogni permanenti e durevoli»”: A. Miscione, Il contratto a termine davanti alla Corte di Giustizia: legittimità comunitaria del d. lgs. 368 del 2001, in Arg. dir. lav., 2006, 1647-1648; P. Saracini, Flexicurity e lavoro a termine: problematiche attuali e prospettive, in L. Zoppoli (a cura di), Flexicurity e tutele del lavoro tipico e atipico, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT–57/2007, 40; M. Roccella, “Vorrei ma non posso”, cit., 418.

[15] M. Tiraboschi, Il «pacchetto Sacconi» sul lavoro: prima interpretazione, in Guida lav., n. 28/2008, 14-15.

[16] V. Corte d’Appello di Firenze, 30 maggio 2005, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 111 ss. Identica espressione utilizzano Corte d’Appello di Firenze, 11 luglio 2006, in Riv. giur. lav., 2007, II, 459 ss.; Tribunale di Treviso, 26 settembre 2006, cit.; Tribunale di Genova, 14 novembre 2006, cit. V. inoltre, tra le molte, Tribunale di Reggio Calabria, 20 luglio 2007, in Foro. it., 2008, I, 294 ss., per cui “la nozione di «ragioni» non può non includere un profilo di temporaneità”; Corte d’Appello di Bari, 20 luglio 2005, in Foro. it., 2006, I, 1540 ss., che richiede “non una qualsiasi ragione, ma una ragione giustificativa del termine”; Tribunale di Firenze, 5 febbraio 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 325 ss.; Tribunale di Firenze 23 aprile 2004, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 194 ss.; Tribunale di Bologna, 2 dicembre 2004, in Arg. dir. lav., 2005, 655 ss.. Contra Tribunale di Pavia, 12 aprile 2005, in Arg. dir. lav., 2006, 260 ss. Sul punto cfr. anche M.P. Aimo, Il contratto a tempo determinato riformato, cit., 466.

[17] V. L. Montuschi, Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in Dir. rel. ind., 2006, 109 ss.

[18] La ratio dell’intervento normativo è ben evidenziata da A. Maresca, Apposizione del termine,  cit., 303 ss., che perciò lo legittima sul piano costituzionale.

[19] La trasformazione, lo sottolinea anche la circolare ministeriale n. 13/2008, opera ai sensi del comma 2 dell’art. 5. Stando a tale norma, come modificata dalla L. n. 247/2007, se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo in parola, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

[20] L’opposta opinione muove dall’abrogazione della norma che sanciva la nullità delle assunzioni in frode alla legge. Sui rilievi riportati nel testo v. per tutti A. Miscione, Il contratto a termine davanti alla Corte di Giustizia, cit., 1643 ss., L. Nannipieri, La Corte di Giustizia e gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine: il problema della legittimità comunitaria degli artt. 5, d. lgs. 368/2001 e 36, d. lgs. n. 165/2001, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 748 ss., ed ivi bibliografia citata.

[21] Così, tra i primi commentatori, J. Pérez Rey, El Acuerdo para la mejora del Crecimiento y del Empleo: primeras reflexiones acerca de su contribución a la calidad del trabajo, in Revista de derecho social, 2006, 256 ss.

[22] V. rispettivamente V. Speziale, La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, cit., 202, G. Proia, Le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in Arg. dir. lav., 2008, 362-363, A. Maresca, Apposizione del termine, cit., 315 ss.

[23] Non sembra, a tal proposito, particolarmente significativa la circostanza che la norma statutaria escluda dal computo il contrato de interinidad, ciò sulla scorta dell’assoluta prevalenza delle tipologie para obra o servicio determinado e eventual por circunstancias de la producción nel mercato del lavoro spagnolo.

[24] M. Roccella, “Vorrei ma non posso”, cit., 424 ss.

[25] V. rispettivamente A. Maresca, Apposizione del termine, cit., 326-327, e M. Quaranta, La disciplina del lavoro a termine: certezze giurisprudenziali e revisioni legislative, in Dir. lav. merc., 2008, 396.

 

 

 

 

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