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Giurisprudenza 13229/2003 (29/01/2008)

Tipo: Sentenza

Autorità: Autorità europee: Corte europea dei diritti umani

Data: 29/01/2008

Oggetto: dell’Articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione Europea dei Diritti Umani; all’unanimità, per la violazione dell’Articolo 5 § 2 (diritto ad essere informato nel più breve termine delle ragioni del proprio arresto). Il ricorrente, Shayan Baram Saadi, è un cittadino curdo iracheno nato nel 1976 e residente attualmente a Londra, ove esercita la professione di medico. La causa verte sulla sua detenzione, durata sette giorni, in un centro creato appositamente per i richiedenti asilo. Nell’invocare l’Articolo 5 § 1 e § 2 della Convenzione Europea, il ricorrente contestava la sua detenzione del centro di Oakington e di non essere stato informato delle ragioni di tale detenzione. Articolo 5 § 1 La Corte osserva che se il principio generale contenuto nell’Articolo 5 § 1 è che ogni persona ha diritto alla libertà, l’alinea f) di tale norma prevede un’eccezione consentendo agli Stati di contenere la libertà degli stranieri nel quadro del controllo sull’immigrazione. Gli Stati hanno la facoltà di privare della libertà gli immigrati che – tramite o meno una domanda di asilo – abbiano chiesto l’autorizzazione ad entrare nel paese. La Grande Camera ritiene che, quando uno Stato non ha “autorizzato” l’entrata sul proprio territorio, questa è “ irregolare”, e la detenzione di un individuo che spera di entrare in quel paese ma è bisognevole a tal fine di una autorizzazione di cui non gode ancora, può mirare – senza che la formula sia snaturata – ad “impedire [all’interessato] di penetrare irregolarmente”. La Grande Camera respinge l’idea che, se un richiedente asilo si presenta di persona ai servizi per l’immigrazione, ciò significa che egli cerca di penetrare “irregolarmente” nello Stato, con la conseguenza che la detenzione non si giustifica ex prima parte dell’Articolo 5 § 1 – f). Non si potrebbe interpretare ciò come legittimazione detentiva solo per la persona che si ritiene stia tentando di sottrarsi alle restrizioni di ingresso. Simile interpretazione mal si concilierebbe con la Conclusione n. 44 del Comitato esecutivo del Programma dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, i Principi direttivi di tale Alto Commissario ed una raccomandazione dettata al riguardo dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa, documenti che considerano la detenzione dei richiedenti asilo solo in certe circostanze, ad esempio al momento della verifica di identità o allorché occorre determinare gli elementi alla base della domanda di asilo. Tuttavia, una tale detenzione deve conciliarsi con le finalità generali dell’Articolo 5, cioè proteggere il diritto alla libertà e assicurare che nessuno sia privato della libertà in modo arbitrario. Per non incorrere nella qualifica di arbitraria, la procedura di messa in detenzione deve essere compiuta secondo principi di buona fede; essa deve essere strettamente connessa allo scopo di impedire ad una persona di entrare irregolarmente sul territorio; inoltre, il luogo e le condizioni detentive devono essere appropriate, dato che tale misura si applica non a criminali ma a stranieri che, temendo spesso la morte, fuggono dal paese di origine; infine la durata della detenzione non deve superare il limite ragionevole al perseguimento dello scopo disciplinato dalla norma citata. La Corte osserva che i giudici nazionali hanno giudicato, in tre gradi successivi, che la detenzione del ricorrente era basata sul diritto interno, conclusione non rimessa dal ricorrente in questa vertenza. La Corte rammenta peraltro che il regime di detenzione applicato nel centro di Oakington tendeva a consentire la elaborazione rapida di circa 13.000 domande di asilo, su circa 84.000 fascicoli depositati in quel periodo e ogni anni nel Regno Unito. Per raggiungere tale obiettivo, occorreva prevedere circa 150 colloqui ogni giorno, mentre ritardi pure minimi rìschiavano di alterare la fattibilità dell’intero programma. Se si è deciso di collocare l’interessato in stato detentivo, è perché il suo fascicolo era suscettibile di procedura accelerata. Per tali circostanze, la Corte ritiene che collocando il ricorrente in detenzione le autorità nazionali hanno agito in buona fede. In effetti, la strategia politica su cui si fondava la creazione del centro di Oakington doveva globalmente essere di ausilio ai richiedenti asilo e consentire di esaminare con celerità le loro domande. Inoltre, dal momento che la denunciata privazione di libertà era finalizzata a permettere alle autorità di decidere rapidamente e bene sulla domanda di asilo del ricorrente, la sua detenzione era strettamente legata allo scopo perseguito, cioè impedire la penetrazione irregolare nel territorio. Inoltre, la Corte rileva che il centro di Oakington era stato in modo particolare concepito per la detenzione dei richiedenti asilo e offriva svariati servizi, come attività ricreative, culti religiosi, cure mediche e – elemento importante – consulenza legale. Non vi è dubbio che vi è stato impedimento alla libertà e al benessere del ricorrente, ma costui non ha censurato le condizioni nelle quali è stato detenuto. In ordine alla durata della detenzione, la Corte rammenta che il ricorrente è stato trattenuto nel centro di Oakington per sette giorni e che è stato rimesso in libertà l’indomani del rigetto della sua domanda di asilo in primo grado. Tale periodo detentivo non è qualificabile come eccedente il termine ragionevole e necessario ai fini dell’obiettivo sopra descritto. La Corte, in ordine ai seri problemi amministrativi con cui il Regno Unito ha dovuto misurarsi al tempo dei fatti di causa - ove il numero delle domande di asilo vedeva aumenti vertiginosi – conclude che non era incompatibile con l’Articolo 5 § 1 f), trattenere il ricorrente per sette giorni in condizioni decenti, onde consentire un’elaborazione rapida della sua domanda di asilo. Inoltre, la realizzazione di un sistema che ha facilitato le autorità nel decidere con più efficacia le domande di asilo ha reso inutili ricorsi più frequenti e più estesi ai poteri detentivi. Pertanto, non vi è stata violazione dell’Articolo 5 § 1. Articolo 5 § 2 La Grande Camera osserva che la prima volta che il ricorrente ha ricevuto notifica del vero motivo della sua detenzione, è stato tramite l’intermediario del suo rappresentante, il 5 gennaio 2001, dopo che già da 76 ore era iniziata la sua detenzione. La Grande Camera aderisce al parere della Sezione secondo cui, pur ammettendo che una comunicazione orale ad un rappresentante rispondesse alle esigenze dell’Articolo 5 § 2, il termine di 76 ore per spiegare i motivi di una detenzione era incompatibile con l’obbligo di fornirli “ nel più breve tempo possibile”; pertanto, vi è stata violazione dell’Articolo 5 § 2. I giudici Rozakis, Tulkens, Kovler, Hajiyev, Spielmann e Dirvela hanno espresso comune opinione parzialmente dissenziente, il cui testo si trova allegato alla sentenza.

Parti: Saadi c/ Regno Unito

Classificazione: Libertà - Art. 6 Libertà - Sicurezza